domenica 18 agosto 2013

Ritornati ncopp', raccogliamo i primi frutti...

Per quanto le vacanze siano state intense, il periodo a venire si profila altrettanto impegnativo, tanti sono i prodotti che abbiamo portato a casa e che, adesso, dovremo diligentemente assaggiare.

Cominciamo oggi scartando il Pecorino bagnolese della piccola impresa Salvatore Di Capua, di Bagnoli Irpino (AV). Ottenuto da pecore di razza bagnolese e meticce, allevate nei dintorni di Bagnoli e, precisamente, sul Piano Laceno, un bellissimo altipiano verdeggiante collocato a più di 1000 metri di altitudine, circondato da montagne ed adibito per lo più al pascolo (ed al turismo).
Come ci raccontano due pastori, l'antico soprannome locale dato alla bagnolese è "malvizza" (=malvagia?), per via delle numerose macchie nere, piccole ed irregolari, presenti sulla faccia e sulle orecchie di quest'animale.


Comunque, la famiglia Di Capua ha al pascolo circa 350 pecore, il cui latte viene refrigerato e lavorato la mattina successiva a quella della munta.
Il latte - intero e crudo - è riscaldato a 40°C e fatto coagulare per soli 15 minuti con l'aggiunta di caglio vaccino liquido. La cagliata viene successivamente rotta a dimensioni abbastanza piccole e riposta in canestri di vimini, con una leggera pressatura manuale. Dopo la salatura, effettuata a secco, il cacio è lasciato a maturare ad una temperatura di circa 20°C per un periodo variabile (il nostro pezzo avrà un mesetto), con periodici lavaggi della superficie con acqua calda.
La forma nelle nostre mani è cilindrica, a facce piane e scalzo convesso; la crosta è canestrata, secca ed elastica, di colore non uniforme (paglierino con aree ocra).
La pasta, a dire il vero, non si presenta benissimo, sia per il colore non uniforme (paglierino scarico con una zona interna di tono più scuro), sia per l'occhiatura inaspettatamente diffusa, di forma irregolare e medio grande. Il sottocrosta è sottile, mentre la struttura al tatto è semidura, secca, abbastanza elastica.
Le iniziali perplessità non trovano però alcun riscontro al naso ed in bocca, perché il cacio risulta diretto ed intenso, magari non particolarmente fine ma interessante e piacevolissimo. L'odore è di intensità medio-elevata e richiama il latte ed il burro cotti, le erbe aromatiche, le note animali di pecora e, in secondo piano, sentori floreali.
Al palato, inizialmente, è in quilibrio tra dolcezza e sapidità (entrambe di intensità media), poi la sensazione salata persiste e si intensifica gradualmente, finendo per dominare l'assaggio; l'acidità rimane invece su intensità medio-leggere, ed è presente anche una sottile piccantezza. Gli aromi ricordano quasi le olive verdi campane assieme al burro: a parole può sembrare un incontro spiacevole, invece è veramente alletante. La pasta sembra elastica, secca, grumosa e non molto solubile. Leggermente più intensi i profumi animali e vegetali. La persistenza olfattiva e gustativa è medio-elevata.


Segue un pezzo di Caciocavallo podolico del caseificio La Torretta (Castelnuovo di Conza), alla cui azienda abbiamo avuto anche il piacere di fare visita. Il titolare, Giovanni Cifrodelli, possiede vacche podoliche e meticce (circa 150 esemplari di cui 80 in lattazione), che alleva al pascolo con una piccola integrazione alimentare di fieno e cereali.
Il latte - particolarmente ricco di caseina - viene munto una volta al giorno, di mattina, ed immediatamente portato nella caldaia a fiamma elettrica. Alla temperatura di 38°C viene aggiunto il caglio di agnello e, ben 60 minuti dopo, il coagulo è rotto con "'o ruotolo" in granuli delle dimensioni di chicchi di mais.
Segue un breve riposo nel siero (per favorire la sineresi) e, quindi, una seconda rottura della cagliata. 
La maturazione dura circa 2-4 ore, finché la massa, avendo raggiunto la giusta plasticità, viene sminuzzata a strisce e sottoposta alla filatura.
Quest'ultima fase - a cui riusciamo ad assistere dal vivo, uscendo una volta tanto dalla nostra dimensione "scolastica" - è svolta manualmente in acqua bollente a 90°C (mani temprate come l'acciaio!). Si ottiene un filamento lungo e sottile, che viene porzionato in base al peso desiderato ed attorcigliato come un gomitolo.
La parte più impressionante della lavorazione rimane però la successiva formatura, durante la quale ciascun pezzo di cagliata, plastico ma già molto resistente, viene laboriosamente impastato ed involto in se stesso (così da chiudere ogni porta all'ossigeno); poi, lentamente, aiutandosi ogni caldo con l'acqua calda, l'impasto viene chiuso a sacco ed arrotondato, fino a fargli assumere la caratteristica forma a pera con testina. Sembra quasi di vedere all'opera un vasaio con la terracotta (non che io abbia mai visto un vasaio, ovviamente).
Per concludere, il cacio è riposto, prima, in una bacinella d'acqua fredda e, poi, in una vasca d'acciaio d'acqua, sempre in acqua ma con il culo dentro una semisfera d'acciaio (per fargli mantenere la forma senza doverlo continuamente smuovere a mano).
I pezzi vengono, infine, legati a coppie con una corda ed appesi a cavallo di un bastone, nella stessa sala di lavorazione, dove rimarranno per 15 giorni alla temperatura di circa 24°C. La stagionatura comincerà soltanto dopo, in cantina, a temperature di 16-18°C ed umidità dell'80%, per periodi che possono raggiungere anche i 12 mesi.


Il nostro cacio, dalla tipica forma irregolare a pera con testina, ha crosta elastica, dura, liscia ed ammuffita, di colore paglierino intenso con macchie bianche, verdi e rosse.
La pasta, anch'essa di colore paglierino intenso, presenta un sottoscrosta leggero e sottile ed una piccola occhiatura irregolare; la sua struttura è elastica, semidura ed untuosa.
Ha profumi di media intensità, con netta prevalenza di burro cotto ma anche note vegetali di fieno, frutta tostata ed un accenno di brodo di carne. Tra i sapori la dolcezza la fa da padrone, con leggera acidità, sapidità medio-leggera e una lieve amarezza finale, oltre ad una leggerissima sensazione piccante. Al palato è semiduro, leggermente grumoso, deformabile e di media solubilità. La persistenza è media.


Ci beviamo su, per restare in Campania, un Paestum IGT Paestum 2012 della cantina Sangiovanni, splendida tenuta con splendidi vigneti in splendida posizione costiera a Punta Tresino (Castellabate - SA). Ed anche questo, nella degustazione, ha la sua influenza.
L'uva è fiano all'85% e, per il resto, trebbiano (10%) e greco (5%), allevata a spalliera e guyot in un vigneto di meno di 2 ha, posto a 60 m.l.m. Fermentazione e maturazione sono svolte in acciaio.
Il vino si presenta color paglierino abbastanza carico, con un intenso e ricco impatto olfattivo di zolfo e pietra, seguito da note vegetali grasse, erbe aromatiche tipo salvia e origano, agrumi e (per me ma non per la socia) mandorle, con leggeri sentori floreali. In bocca si conferma intenso nei profumi e nei sapori, con la morbidezza ed il calore di fondo (12,5% alcol che si sentono) equilibrati e dominati dalla spiccata acidità e da una sapidità media, leggero finale amaro e medio corpo. E' un vino al contempo grasso, vivo e lungo. Molto gustoso!
Si abbina bene con il pecorino bagnolese, la cui sapidità è bilanciata dalla morbidezza del vino, mentre la dolcezza del cacio si contrappongono l'acidità e la sapidità del vino; entrambi i prodotti peraltro concordano per intensità e persistenza, oltre ad avere una certa continuità di profumi.
Inopinatamente, invece, il caciocavallo risulta sovrastato dal vino.

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